Corso di Scrittura Espressiva 2023-2024 – Università Popolare di Ferrara
Docente: Simona Bianchini
Ospiti del Gruppo Scrittori Ferraresi – Mercoledì de «L’Ippogrifo»
Reading presso Biblioteca Ariostea, 25 settembre 2024
POESIE
DICEMBRE A LUTTO
S’affila l’aria silenziosa,
lama sottile e gelida
sulle croci di marmo.
Natale incombe
nel suo barbaglio incalzante.
Ma, qui, il tempo
segue altra condotta:
alfa e omega irridono
il frettoloso passeggere,
svelto tra disperse solitudini.
Mentre ogni lume s’offusca,
nella scialba città
dai campi smisurati,
arde l’ara degli olocausti:
inesausta, corrusca, s’assimila
a vaporosa nebbia;
lugubre chimica,
fumigante vanità.
Piergiorgio Rossi
INVERNO
La fine della vita
ha i colori di un inverno uggioso
ha il silenzio della neve
ha il calore di un camino acceso.
I ricordi guizzano
e crepitando bruciano
così nel freddo cielo si sparpagliano
insieme al mio cuore.
Adriana Sabato
WHITMAN
Oh, il poeta estroso
che dispiega vele cosmiche, libere ali sideree;
che canta il singolo e la moltitudine,
che sogna le vette e gli oceani,
che non teme fatiche!
Egli vive l’incanto della notte,
innalza inni alla placida luna
come ai cieli in tumulto.
Oh, il poeta vigile,
che indaga il destino finale
a ama il sonno ristoratore;
che trepida al palpito possente della Natura,
al flutto fragoroso sulle rocce!
Egli prega, proteso alla divinità;
conosce le dimensioni
e sfida il tempo.
Ha fiducia nell’uomo e nelle Nazioni;
si compiace di esistere, fiero di essere storia
e di assumere la voce.
Ringrazia, esalta la Vita, oh Vita:
felice di aggiungere almeno un verso,
un duraturo verso, alla poesia del Creato.
Potessimo noi tutti incidere la dura pietra,
con un rigo perenne,
e scagliarla contro l’oblio!
Piergiorgio Rossi
CONTROCORRENTE
Come un salmone che risale il fiume,
come pedalare nella nebbia fitta,
come una lampada senza paralume,
come un uomo con la schiena dritta.
Stefano Bernardini
NELL’ABISSO
Scesi, tenendomi per mano,
nelle mie oscure profondità
tentando di dar luce
a tutte le paure.
Mi sentii parte pura dell’abisso,
chiusi gli occhi e vidi tutto.
Cerini e torce,
un peso enorme.
Abbandonai il superfluo.
Trovai la luce dentro.
Roberta Scalici
PERCHÉ VI BATTE IL CUORE, PER CHI VI BATTE IL CUORE?
Svegliami!
Sono parte pura dell’abisso.
Scuotimi!
Sono un minimo essere.
Curami!
Sono ebbro del grande vuoto.
Guardami!
Sono immagine e somiglianza del mistero.
Chiedimi
quando il mio cuore potrà sparpagliarsi nel vento.
Portami
fin quando vedrò cadere il cielo con le stelle.
Spara!
Se non sarò capace di rialzarmi.
Stefano Tommasone
APRII GLI OCCHI
Ruotai con le stelle
e seguii l’orbita di un pianeta
sperando in un nuovo viaggio.
Il cuore si sparpagliò
ed io lo lasciai fare,
certa del ritorno di ogni sua parte.
Aprii gli occhi, vidi il mio sogno
tanto distante quanto prezioso.
La pace,
esiste.
Roberta Scalici
LA PARTITA A DADI
Gli occhi della notte
mi frugano l’anima,
ombre distorte si acquattano
negli angoli del sonno.
La luna orfana di luce
allunga un dito alla finestra.
Sorti da un vortice di nulla,
un demone alato e un angelo cornuto
si giocano a dadi il mio destino.
Non c’è acqua benedetta
che lavi la mia colpa.
Condannata a una pena eterna,
risucchiata dal gorgo dell’abisso,
vagherò per sempre
in un silenzio
denso di morte.
Lucia Paparella
IL MIO CUORE SI SPARPAGLIÒ
Il mio cuore si sparpagliò nel vento
Come farfalle impazzite
I miei pensieri
Ebbri
Sbagliati
Di polvere
E d’oro
Di sale
E di miele
Katia Zerbini
SVUOTATASCHE
Mi ci vorrebbe uno svuotatasche.
Un contenitore dove mettere le cose che non hanno un posto.
Una scatola di scarpe o un vassoio rotto vanno bene.
Ci metterei dentro quello che ho.
Ci metterei le cose più belle
il mio primo disegno, il mio primo bacio
la mia prima carezza
la cartina delle mou… la figurina panini che mi mancava.
Ci metterei l’odore del pacco del mcdrive
lo sfiorare i seni nel mio primo ballo lento,
ci metterei il cielo di Ascoli
ci metterei Sade.
E se dovesse riempirsi troppo vorrei uno svuotatasche enorme
dove mettere le cose che abbiamo
il rigore di Grosso
la nostra prima volta.
E quando sarò ospite nella casa del Signore,
ci metterò dentro le poche cose che mi saranno rimaste
i ricordi …
… la noia, la noia, la noia.
Emidio Peroni
STESSO INCIPIT
UN DÌ PENSÒ BENE…
Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno un dì pensò bene di cambiar
direzione e per capriccio decise di volger a settentrione. E dove stava scritto che sempre e solo mezzogiorno doveva guardare?
Nella vita ogni tanto bisogna pur cambiare!!!
Così deliziandosi del suo sfizio inflisse al Signor Manzoni un bel supplizio!
Martina Matteucci
FACILE A DIRSI
Eh già… Facile a dirsi, nel mezzo. Ma per sapere quando si è nel mezzo bisognerebbe sapere dove si colloca il termine, una perifrasi questa per dire sapere quando si morirà. Marina Lante della Rovere, poi Ripa di Meana, aveva fissato l’asticella a quaranta. Ci aveva scritto un libro, I miei primi quarant’anni, da cui avevano tratto un film molto piacevole. Ed effettivamente è piacevole compiere quarant’anni, uno è nel pieno della sua maturità. Anche i cinquanta sono molto festeggiati, cifra tonda, e in quanto all’essere nel mezzo, chi è che non conosce qualche centenario? Discorso leggermente diverso per i sessanta, il doppio fa centoventi. Li si festeggia, ma comincia a farsi strada il pensiero che effettivamente sono un po’ tanti.
Silvano Scapinelli
PRATERIA
Nel mezzo del cammin di nostra vita, sai, mi ritrovai a stravolgere la mia.
La terra su cui avevo camminato fino a quel momento stava mutando in sabbie mobili. Trovare quell’unica roccia, saltarci sopra con il cuore in tumulto, rimanere lì aggrappata col sangue che cola dalle mani ferite. Niente è valso più del tirarsi su e ripulirsi, lentamente. Niente è contato più dell’imparare a camminare in territori tanto sconosciuti quanto familiari. Arrivai nella mia prateria.
Nel mezzo del cammin di nostra vita, sai, mi ritrovai.
Roberta Scalici
DANTE? DANTE?
Nel mezzo del cammin di nostra vita…
“Dante? Dante? Oh, dove tu stai?”
“Oh che tu vuoi, Beatrice?! Sempre a rompe’ l’anima…”
“Dante, che vohabolario è codesto? E menomale che poeta e Vate t’appellano. Sicché io vo al Despar che ti garba per cena? Del lampredotto, una fettunta, una panzanella o del presciutto?”
“Beata pischella, intanto accendi un po’ un lume ché codesto Cupolone mi offusca la visione, mannaggia al Brunelleschi e alle sue follie di grandezza, e pure a lui, Alan il Magnifico, e alle sue sagre della birra barbara piuttosto che dell’orgoglio nostro, il Brunello…”
“Sempre a fa’ polemica e bofonchiare, … c’avrai pure gli allori ma che peso che tu sei…”
“Chetati, Beatrice! E che domande poi a me che albergo in alte sfere…”
“Ma quali alte, mica eri agli inferi con codesta tragedia tua?”
“Commedia, Beatrice, commedia ma basta col tuo vacuo cianciare, portami un cicchino…”
“Nel mezzo del cammin di nostra vita…”
Katia Zerbini
FIATO IRREGOLARE
Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai col fiato irregolare…
Mi senti? Gridava una vocina.
Prendi, parti, scappa.
Attraversa il buio da mezzanotte all’alba.
Metti luce nella notte, perché, non esiste altro modo per arrivare da qualche parte.
I chilometri da percorrere sono tanti, ma sono quelli giusti per iniziare a faticare.
Sei parte di un filo illuminato, entraci dentro e proteggi quello spazio.
Fai tremare i polsi sui sassi del sentiero, fai volteggiare le gambe sull’argine più
nero.
Negli incroci irrisolvibili non voltarti; alla fine penserai a quanto sei stato fortunato.
Ti sembrerà, di aver immaginato il sogno da inseguire, ma ci arriverai…
Mi senti?
… col fiato irregolare.
Arianna Cristofori
TRA SMOG E TRAFFICO
Nel mezzo del cammin di nostra vita, tra smog e traffico,
mi ritrovai smarrita nel labirinto urbano, ove il mal di schiena
faceva a gara col mal di testa quotidiano.
Lo stress m’incalzava tra corsi vari e lavori occasionali,
e la Scrittura Espressiva sollievo un po’ mi dava.
Gli amici, preziosi come perle nei fondali,
mi supportavano, ma nemmeno Virgilio
mi poteva salvare dalle riunioni di condominio.
L’insonnia mi stringeva come un nodo e l’incertezza
si annidava nei palazzi grigi. La via del Bene pareva
un sentiero perduto e salire le scale era come scalare
una montagna. Ma perché si era rotto l’ascensore?
La fumana calò su Ferrara, il centro commerciale
risuonava di voci stanche e in un vicolo buio un rottweiler
rabbioso mi guatò in cagnesco e contro mi ringhiò.
«O Virgilio, ti scongiuro, a uscire aiutami da codesto inferno!»
E lui a me: «Ma forse convien pigliare la tangenziale,
sfuggire a questo caos frenetico, al rumore;
cercar ristoro al parco urbano, tra la verzura e i fiori,
dove l’anima possa finalmente respirare.»
Lucia Paparella
IN CIMA A UNA SALITA
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai in cima a una salita
bloccato innanzi a un muro
con sopra inciso “Per me si va nell’eterno futuro”
Qual paura!
Qual tormento!
Se sol ci ripenso si rinnova lo spavento!
Ma quel dì, mosso da sentimento,
scalai la cima delle antiche mura
per scoprir un corso di scrittura
il futuro allor si rivelò divertente
e la noia fu latente
con cotanta bella gente!
Martina Matteucci
CLICK, BOOM, BOOM, BOOM
Nel mezzo di cammin di nostra vita mi ritrovai infilato in un bossolo. La mia anima di piombo fu adagiata a pressione su uno strato di polvere da sparo. La fila di colleghe era notevole: tutte uguali, tutte dorate, tutte perfette, tutte fetenti.
Fui spedita in un paese africano e infilata in un caricatore. Poi, quest’ultimo, fu inserito in un Kalashnikov.
… Click, boom, boom, boom come dice Rose Villain.
… era il mio turno… Click-boom
Una spinta incredibile ai miei piedi. Mi giro a velocità pazzesca nella canna rigata. Esco fuori inebriata a fendere l’aria e volo in pochissimi millesimi di secondi verso il target. Saprei raccontare per sempre i momenti della mia unica “botta” di vita… la velocità… il fischio delle molecole d’aria schiacciate…
Vedo con precisione avvicinarsi velocemente, troppo velocemente, la testa di un uomo.
Oh Dio no, non voglio.
Trovo il modo di deviare la mia traiettoria, evito la testa e mi infilo per sempre nel terreno.
Non so come e perchè l’ho fatto.
Forse perchè è un racconto e volevo provare un modo alternativo di entrare nella testa delle persone…
Dedicato alla memoria e in onore di tutti i colpi andati a vuoto.
Emidio Peroni
FAVOLE
LO SPECCHIO INCANTATO
C’erano una volta,
un re e una regina che vivevano in un castello bellissimo, con cento stanze e cento bagni. Nel cortile troneggiava una grande fontana, decorata con ninfe e delfini, che incessantemente mormorava nel suo indecifrabile linguaggio d’argento.
Il luogo era circondato da un bosco che stringeva il castello e i suoi abitanti in un mondo verde e vivo, dove si rincorrevano uccellini coloratissimi e gorgogliavano ruscelli di acqua chiara.
I castellani erano amati dai loro sudditi perché condividevano con generosità le loro ricchezze e amministravano con tolleranza il loro piccolo regno dove a nessuno mancava il necessario. Nessuno però poteva possedere uno specchio.
Infatti i castellani volevano che gli abitanti si potessero osservare esclusivamente in un’unica grande specchiera posta all’ingresso del castello.
Questo perché quello specchio, anche se tutti lo ignoravano, era magico. Infatti restituiva a chi vi si rimirava non un’immagine oggettiva ma quella che della persona avevano il re e la regina: un giudizio perciò tanto subdolo quanto inappellabile.
Un bel giorno, a coronamento della loro felicità, nacque una bambina.
La chiamarono Alba perché con la pelle color pesca, i capelli biondi e gli occhi celesti aveva i colori trasparenti e chiari del mattino.
Quando Alba crebbe, cominciò a guardarsi nello specchio dei genitori: vedeva una fanciulla bellissima, con uno sguardo dolce e vezzoso, piena di gentilezza e di vitalità. E, forte di questa immagine, giocava felice con gli altri bambini.
Un giorno, però, Alba passando davanti allo specchio rimase impietrita perché vide una figura che non le piaceva e che lei sentiva estranea: era Alba, però, era anche un’altra ragazza.
Che fosse proprio lei, la principessa, era evidente dai gioielli e dai vestiti preziosi che indossava. Eppure, era sciatta nel portamento e, nello sguardo, si annidava il riflesso di una persona incosciente, superficiale, sgarbata, arrogante.
Provò a guardarsi nei giorni successivi ma l’immagine non mutava. Cominciò a sentirsi a disagio con gli altri ragazzi, a litigare con loro, a isolarsi.
Un giorno più triste degli altri, persa in cupi pensieri, andò a sedersi sul bordo della fontana e cominciò a piangere.
Improvvisamente le ninfe, che in realtà erano delle fatine, parlarono e le chiesero il motivo di tanto dolore. Superato lo spavento e la meraviglia, la principessa confidò loro il proprio smarrimento nel vedersi riflessa nella specchiera così brutta e diversa da come si immaginava.
“Cara Alba – le disse una fatina – non piangere. Perché non provi a guardarti nell’acqua di questa fontana? “
Alba temeva di disubbidire ai genitori specchiandosi altrove tuttavia, benchè titubante, alla fine si affacciò oltre il bordo della fontana e si contemplò con attenzione.
Incrociò lo sguardo di una ragazza aperta, socievole e piena di gioia di vivere: si riconobbe più bella e si sentì rincuorata. Fu felice ma non capiva cosa succedesse.
Allora le ninfe le rivelarono il segreto dello specchio e Alba imparò a non guardarlo più.
Anzi, quando divenne Regina, regalò a ogni abitante del piccolo regno uno specchio per liberarli dalla tirannia della specchiera diventando così la regnante più amata di sempre.
Adriana Sabato
LILLY E PESCIOLINO
La valle di Fattiunsorsetto era piena di profumi. Vi crescevano fiori stranissimi che sembravano dipinti da pittori impazziti. Erano tanti gli angoli di paradiso ma nessuno era bello come la riva del fiume. Sarà che il colore blu le piaceva da impazzire, sarà che il rumore dell’acqua era il sottofondo ideale per i suoi sogni a occhi aperti, ma Lilly ci andava tutti i giorni.
Un giorno, proprio mentre era là accoccolata sulla riva del fiume e ascoltava la sua voce quieta, sprofondò in un torpore sonnecchioso.
“Non lo sapevo che le gatte russassero!” sentenziò una voce dall’acqua.
Lilly scattò a sedere in un millesimo di secondo, come si fa quando si finge anche a se stessi, e vide Pesciolino che la guardava stupito.
“E io non ho mai visto un pesce parlare e poi io non russo”.
“Hai voglia se russi e poi i pesci parlano eccome, se solo li sai ascoltare.”
Ma tu guarda quell’essere insignificante, riottoso e inopportuno! Quel… quel… pesce… di… quel… colore… blu, azzurro, argento, e ancora indaco e viola…
“E parlano tutti con il naso?”.
“No, quella è la mia specialità e non è l’unica!”
“Immagino tu sia un pesce palla, borioso come sei!”
“Si è fatto tardi. Devo andare. Ciao, Miss Simpatia.”
La gatta, sprezzante, voltò il muso dall’altra parte con una foga tale che si stirò un po’ il collo ma, pur di non dare a quello sbruffoncello marino la soddisfazione, sopportò il dolore stoica per qualche secondo, finché non fu sicura che il disturbatore fosse sparito.
Ma tu guarda, il cielo era limpido, il teporino delizioso e il momento sonnacchioso… e ci si andava a infilare proprio lui in quel giorno che sembrava uguale a tanti altri! Mentre camminava verso casa, attraversando il parco del silenzio e delle rose, Lilly pensò, come sempre, alla sua nonna e ai detti che le piacevano tanto: Se son rose fioriranno oppure Non c’è rosa senza spina.
Il giorno dopo si alzò triste. Che fosse colpa delle rose o colpa delle spine, aveva sognato la nonna. Tutte le nonne muoiono, è normale. Ma la sua era un po’ più nonna di tutte le nonne. E poi anche un po’ mamma, un po’ consigliera, un po’ rompi, un po’ tante altre cose. Dicono che il tempo sia come quei cerotti che chiudono la ferita. E allora Lilly un po’ si rattristava, un po’ piangeva e un po’ aspettava che il cerotto facesse il suo magico effetto.
Quando arrivò al fiume Libero sentì un rumore di spruzzi e guizzi. E poi lo vide.
“Ma tu che razza di pesce saresti?”
“Cominciamo bene!”, ribatté Pesciolino. Fatto sta che, tra uno splash e una battuta, il tempo volò chissà dove e il cielo si colorò di sera.
Il giorno dopo Lilly si alzò felice chi lo sa perché! C’era il sole, l’aria era piena di cose ancora da dire, un silenzio gonfio come la pancia delle mamme in attesa. Che buffe le immagini che le saltavano in mente. E poi c’erano mille odori che, uno dopo l’altro, arrivavano al suo naso curioso. Lilly odorava e gioiva e sognava! Insomma, di perché, quel giorno, a ben guardare, ce n’erano eccome. Però che afa, che calura, che canicola lattiginosa!
Giunta nei pressi del fiume, aguzzò le orecchie, sperando di sentire il concerto di guizzi divenuto caro al suo udito. Ma niente! Dopo un tempo che sembrò di secoli, finalmente Pesciolino arrivò.
“Si può sapere come mai arrivi solo ora?”,
“Perché, avevamo un appuntamento? Sarebbe bastato chiederlo!”
Lilly gli rivolse uno sguardo tra il riottoso e il permaloso, ma in verità era troppo contenta che fosse arrivato. Peccato che quel caldo le togliesse persino la sua verve nel ribattere. Pesciolino, invece, nuotava contento e tranquillo, alzando una nuvola di spruzzi freschi su Lilly.
“La vuoi smettere?” gli disse, mentre si accorgeva che quel freschino non era niente male. “Non ho mai visto un pesce far tutto ‘sto rumore e bagnato.”
E, in effetti, Pesciolino più che nuotare sembrava danzare.
“Dai, vieni a farti un bagno”.
“Non ci penso nemmeno. Nuotare non fa per me”.
“Peccato perché l’acqua è fresca e piena di sorprese”.
E così anche quel giorno di gelatina passò in fretta. E fu sera e fu mattina. Ops, no, quella è un’altra storia, mi sa che i diritti di autore non si possono chiedere! Insomma, la sera arrivò di volata e Lilly e Pesciolino si salutarono. Mentre tornava a casa, Lilly sentiva un magone nuovo e strano tra la pancia e la gola. “Sarà fame” pensava.
E così i giorni divennero settimane, le settimane mesi. E quel brontolio divenne prepotente e costante, dalla pancia al cuore. E così via, finché arrivò quel giorno.
Lilly arrivò di corsa al fiume Libero.
“Ciao, gattina, dai vieni a farti una nuotata insieme a me”.
“No, no, non voglio, l’acqua mi fa paura. E poi oggi sono tanto tanto triste. E arrabbiata. E delusa. E nervosa.” Disse Lilly mentre due lacrimoni sbucavano dagli occhioni azzurri.
Pesciolino la guardò per un istante. Poi, senza dire una parola, piano piano, uscì dall’acqua e le si mise accanto, così che Lilly potesse appoggiare la testa sul suo petto finché, tra un singhiozzo e l’altro, si addormentò. Ora, mi direte, come caspita fa un pesce a far addormentare una gatta sul suo petto? Non è mica roba da poco. Epperò Pesciolino era un pesce davvero molto speciale. E mica solo perché riusciva a sopravvivere per un po’ senz’acqua. Peccato che questa cosa costasse uno sforzo davvero enorme. Anche a Pesciolino, col cuore blu che più blu non si può. Lilly, purtroppo, era talmente accecata dal suo desiderio, e dalle sue paure, che non si accorgeva di quanto il sacrificio di amore di Pesciolino lo stesse sfiancando. Ogni giorno sorrideva meno e il suo cuore era sempre meno blu. E così via… finché arrivò quel giorno.
Quel giorno Lilly arrivò alla riva del fiume Libero e si sedette ad aspettare. L’aria era strana e anche la sua pancia. Aspettò un’ora, poi due, poi tre. Prima smise di contarle. Poi le si ruppe qualcosa dentro, come uno specchio che cade e Lilly, seppe, in quel crac che faceva un male da morire, che Pesciolino non sarebbe arrivato. Il fiume Libero scorreva placido e indifferente.
Accadde in un istante, come tutte le cose che ti cambiano la vita. Lilly chiuse gli occhi e fece il salto. Aveva freddo. Aveva paura. Aveva male alla pancia. Aveva male al cuore. Ma più di tutte e tante altre cose, aveva amore. Amore senza il suo io. Amore per il suo tu. Nuotava poco e male, ma piano piano avanzava nell’acqua placida del fiume Libero.
Dai Lilly ce la fai, ora adesso oppure mai.
E ogni spruzzo era un passo. E ogni passo era un sorriso. E ogni sorriso era un’immagine: il suo amatissimo Pesciolino con un cuore blu che più blu non si può.
Katia Zerbini
RACCONTI BREVI
PIRATI DEL 3000
by Christopher Morgan
Il buon vento della notte gonfiava le grandi vele di maestra e un uomo solo, pensieroso e risentito, sostava sul bompresso, con le mani ben serrate alla ringhiera di prua. Il veliero beccheggiava solcando onde gigantesche e sembrava sprofondare nei marosi, per poi riemergere con l’impeto di un mostro non rassegnato a essere fagocitato da una creatura più terribile di lui…
L’uomo, il capitano, aveva interrotto da pochi minuti quelle note malinconiche e stonate, provenienti dall’armonica a bocca, che si ostinava a tormentare ogni maledetta notte. Quel diavolo d’un uomo non dormiva quasi mai.
Era iniziata da poco la seconda delle quattro ore che dovevo trascorrere sulla coffa e il mio sguardo si perdeva sulla vastità del mare. Laggiù, da qualche parte, un tempo era sorta una splendida città, Ferrara; che però in un centinaio d’anni la progressiva sommersione delle coste aveva cancellato dalla faccia della terra. Ora, nell’anno del Signore 3024, essa giaceva silenziosa sul fondale, con il suo Castello, le antiche mura e il celebre palazzo con il bugnato a punte di diamante. Ho visto le foto in un libro che conservavo nella mia palafitta a Spinadria, un insediamento di case pensili che resisteva eroicamente ergendosi su una lingua di terra emersa; una volta vi si trovava la foce di un grande fiume.
Il terribile figuro era appollaiato come un condor famelico a dominare col suo torvo sguardo il cupo orizzonte. Udivo solo la sua voce infernale e le sue imprecazioni.
«Ehi, Ranocchio, niente di nuovo lassù?» mi apostrofò, alludendo alla mia voce sgraziata da adolescente. Un anno prima, durante l’assalto notturno in cui il capitano attaccò Spinadria e si impadronì del suo prezioso dissalatore (nel XXXI secolo, il problema della propulsione e dell’energia motrice era stato ormai risolto; la sfida si giocava tutta sulla potabilizzazione dell’acqua), mentre io gridavo alla testa degli altri, ragazzi e adulti insieme, tentando di difendere la mia gente dalla sua furia predatoria, lui mi aveva notato e già allora, divertito, aveva ordinato ai suoi uomini: «Portatemi quel ranocchio, ha del fegato. Ne faremo un perfetto pirata». Venni fatto così prigioniero e condotto a bordo della Spietata. La fama di quell’uomo lo precedeva dovunque, con lui non c’era da scherzare; e quando mi prospettò l’alternativa, o unirmi all’equipaggio o sottopormi a un giro di chiglia, non ebbi affatto l’impressione che stesse celiando: me lo confermavano i suoi occhi spiritati e il tic nervoso che gli sollevava l’angolo destro della bocca in un rictus sardonico.
Aguzzai lo sguardo e scorsi in lontananza un baluginio sospetto; puntai il cannocchiale in quella direzione e vidi una nave. Deglutendo, cercai di mettere a fuoco la bandiera issata sul pennone: era bianca, e la macchia azzurra al centro era l’inconfondibile monogramma SM, ovvero Salt Master, la più potente compagnia produttrice di dissalatori marini dell’emisfero boreale.
«Capitano, nave in vista: è grossa, della SM, Signore!». Egli, a queste parole, al colmo dell’eccitazione si precipitò alla murata di dritta, impartendo ordini alla ciurma per l’attacco. Con i pannelli solari coperti, la Spietata nera in ogni sua parte, diventava pressoché invisibile e in mezz’ora fu addosso alla nave dissalatrice.
Nell’assalto, fui l’ultimo a salire, e mentre i miei compagni si disperdevano a bordo, io rimasi indietro. Mi sentii afferrare alla gola, e una lama gelida premervi contro, mentre una soave voce femminile mi minacciava di morte se solo avessi fiatato. La ragazza mi trascinò sottocoperta, nella cambusa, chiudendo il portello dietro di sé.
I nostri sguardi si incrociarono, nei suoi occhi lessi una rabbia quasi primordiale che non avrei mai più conosciuto; per la prima volta vidi realmente una via di fuga da quell’essere e questo bastò a sancire un’alleanza che, come avrei compreso in seguito, sarebbe andata ben oltre il semplice patto cruento.
Usciti dal nostro nascondiglio, percorremmo i corridoi profondi della nave e d’un tratto ci imbattemmo in una voce inconfondibile che mi fece rabbrividire: era il capitano, che si aggirava come un invasato nelle viscere del battello e ci sorprese. Con un guizzo, spinsi da parte l’ardimentosa Lucy – questo era il nome della giovane – e mi ritrovai faccia a faccia con il pericoloso terrore dei mari.
Lui, vedendo il mio atteggiamento protettivo nei confronti di quella che riteneva una sua preda, intuendo il mio tradimento sguainò la spada e la brandì in un poderoso fendente che riuscii a evitare per miracolo e al quale risposi con una fulminea stoccata sotto l’ascella. Il sangue sgorgò copioso dalla ferita. Il terribile uomo rovinò pesantemente a terra e il suo ultimo rantolo fu il segnale che spinse l’equipaggio, accorso sul luogo dello scontro, a ritirarsi in un attonito silenzio e risalire sulla Spietata verso un destino che ad oggi rimane oscuro. Di loro non si sentì mai più parlare.
Arianna Cristofori, Lucia Paparella e Piergiorgio Rossi
C’ERAVAMO ABBASTANZA AMATI
“Ma ci pensi che quando non ci saremo più rimarranno solo sacchetti di plastica?”
Stamattina la sveglia tuona più tirannica del solito. Con un grugnito afferro lo smartphone e vedo una mail. Ma chi manda mail di notte?
“Con Ordinanza del Direttore Generale, al fine permettere la partecipazione al lutto nazionale, è sospesa l’attività lavorativa per la giornata odierna”
Bene, i terroristi per una volta sono serviti a qualcosa.
Poi un messaggio da mia madre:
“Hai sentito che Aurora era in piazza Ariostea ieri? Fai le condoglianze a sua madre, mi raccomando. Tu stai ancora bene?”.
Diamine! Ma si che lo so. Ti ho insegnato io a leggere le notizie sul telefono. Certo che lo so. È da ieri che ci penso. E non posso fare altro.
Almeno posso andare a fare quella spesa che dovevo fare tre giorni fa, com’è che dicevi?
“I supermercati sono il luogo in cui l’uomo artista incontra la lussuria capitalistica”
Non ho mai capito niente dei tuoi discorsi.
Mi rotolo ancora nel letto, poi ne esco di scatto con un gran mal di testa. Sono già le tredici.
Bene per il supermercato devo solo evitare: posti di blocco, esercito, soccorsi, protezione civile,
giornalisti, curiosi e Dio solo sa cos’altro.
Inconsciamente prendo la strada che mi porta a passare davanti al palazzo dei Diamanti. È
incredibilmente aperto.
C’è una mostra, L’uomo e i suoi simboli. Termina domani. Tu mi avresti trascinato dicendo
“Nell’arte siamo davvero liberi, i mezzi di produzione sono nostri e l’opera finale siamo noi stessi”
Ma cosa stavi cercando di dirmi?
E va bene, per l’ultima volta faccio il tentativo. Poi basta, devi uscirmi dalla testa.
Mi avvicino timidamente al pannello informativo con fare noncurante, come se stessi aspettando
qualcuno. Entro o non entro? Va bene farò questa passeggiata, a quest’ora potrebbe non esserci
nessuno.
Il primo quadro è di Gauguin, cerco di capire cosa si nasconda dietro queste figure ingiallite quando…
“Devi darci tutto quello che ti abbiamo chiesto” mi trovo seduto a un tavolo
“Non ho più niente, mio marito non trova lavoro” a contare monete d’oro
“Lo sappiamo che voi nascondete tutto l’oro in casa, tiralo fuori e poche storie”
in una stanza buia
“Se vi do anche l’altro oro non avrò di che mangiare per un mese, mio figlio morirà di fame”
Una ragazza poco più che adolescente singhiozza e non trattiene le lacrime
“Ora basta sei solo una sgua…”
La porta si spalanca. Un fascio di luce inonda la stanza, una figura in controluce richiama
“Seguimi”
Mi alzo mentre tutti sono immobilizzati. La figura mi tende la mano, vado verso la luce ma è troppo
intensa, devo farmi schermo con un lembo della tunica.
Sono fuori dalla stanza.
Una folla in protesta avanza verso di me
“Pane e lavoro”
Uomini e donne avanzano compatti, i loro abiti sono logori, molti sono scalzi.
Provo ad appiattirmi contro il muro della casa per evitare la folla. Si distacca una ragazzina
“Giuseppe cosa fai qui, torna da noi”
Marcio con i miei compagni.
Un plotone di carabinieri ci accoglie alla fine della strada
Affamatori
Puntano
Traditori
Caricano
Tiranni
Sparano
Il primo a cadere è un uomo dalla carnagione scura e la camicia bianca che aveva cercato di immolarsi per assorbire la prima scarica di proiettili.
La folla si disperde in tutte le direzioni, i carabinieri continuano a sparare, mi sento schiacciato, non riesco a respirare, uno spiraglio, un vicolo, fuggo.
“Edouard cosa ne pensi? Non dovrebbe ringraziare per il cadeau?”
Sono in una radura con i miei amici, abbiamo appena fatto colazione.
“Mais oui Marcel”
Perché ho risposto in francese?
Marcel esplode in una fragorosa risata.
“Io penso che dovrebbe prenderla in sposa, non la troverà un’altra così, neanche se dovesse ritrovare Jeanne d’Arc”
“Stà zitto Marcel stai disturbando la quiete del luogo. E comunque adesso vado a farmi un bagno al
fiume, voi rimanete pure a ciarlare”
Sophie inizia a spogliarsi, faccio per togliermi la giacca
“Pantofolai, mezze cartucce, smidollati e voi sareste uomini? Dannati borghesi imboscati, sull’Isonzo non sareste durati due minuti, corri Filippo e osserva la forza di mille Bucefali d’acciaio che scuote l’animo umano”
Sono su un’auto.
Procediamo a velocità folle tra i palazzi di Sant’Elia, mentre una pioggia nera e battente scroscia
all’esterno.
Su un biplano.
Avvitamento per evitare la contraerea, picchiata di mitragliamento, su di nuovo verso il sole per
abbagliare il nemico e poi lanciare volantini sulle sue città.
Su un motoscafo.
Esplosioni in mare, replichiamo 100 volte Buccari, una corazzata punta, spara.
“Mi scusi stiamo chiudendo”
Sono scosso ma adesso ho collegato i miei pezzi.
L’ultima volta ci siamo dati solo un bacio di fretta, ma un’ombra mi aspettava: il tempo senza di te mi è sfuggito, come orologi che si sciolgono, ho cercato di ricordarti, ma il tuo volto era sempre coperto da un velo, ho cercato di costruire la mia vita con un righello, ma sono uscite solo macchie informi.
Adesso lo so.
Il tuo mondo è troppo avanzato per me.
Non è vero che voglio essere te, non sarò la tua imitazione. Tu eri in un altro mondo, io starò meglio sulla Terra.
Stefano Tommasone
WAYNE
Wayne, affossato nella solita poltrona, stava armeggiando con un tizzone ardente che schioppettava nel camino. Lo prese per accendere la pipa, quella che suo figlio gli aveva donato in estate, per il suo sessantasettesimo compleanno. Una bella pipa intarsiata, come quelle che fumava il suo bisnonno. Wayne assaporò l’acre gusto del tabacco ripensando all’austera figura dell’avo.
Il celebre Jack O’Brian, un vecchio contrabbandiere di whisky noto in tutta Cork. Poi accennò un sorriso, mostrando i pochi denti rimasti, ricordando le avventure criminali vissute da bambino e quasi sentì il tintinnio delle bottiglie trasportate nel doppio fondo di uno sgangherato furgone. Wayne aveva poco in comune con il vecchio capostipite. Forse ed esclusivamente l’amore per le pipe in legno di quercia.
Egli, infatti, disprezzava i fuorilegge, preferendo, per trent’anni, i massacranti turni di lavoro nelle cupe acciaierie dell’Irlanda del Nord al calore sprigionato dal whisky di contrabbando.
Improvvisamente un gatto gli saltò sulle ginocchia per riportarlo alla realtà e supplicare qualche coccola. Wayne, dosando con cura affetto e reticenza, accontentò il felino rimproverandolo bonariamente, nel tipico gaelico sibilato, per i roditori che non di rado nascondeva nei meandri dell’abitazione.
Stefano Bernardini
AUTOBIOGRAFIE TRA FICTION E REALTÀ
UNA BIOGRAFIA IN FRITTA E FURIA
I tricolori appesi alle finestre dei palazzoni della Capitale avevano iniziato a perdere il proprio smalto quando Stefano venne dato alla Iuce. QueIIe medesime bandiere, celebrative del Mundial vinto da Paolo Rossi e compagni tra le gesta di giubilo del Presidente Pertini, avrebbero costituito, quattro decenni più tardi, una similare cornice ai festeggiamenti dedicati al rientro del nostro mitico eroe sulla Terra. Eppure era stato un bambino come gli altri, cresciuto a carbonara e nascondino, calci al pallone e qualche ciabattata volante. Poi gli studi scientifici e I’Università frequentata negli States, sino al fatidico incontro che cambiò la vita di Stefano e, probabilmente, di tutta I’umanità. Era il 26 maggio del 2013 quando, nella pizzeria “Vesuvio” di San Francisco, Stefano, Steve Jobs ed Elon Musk si incontrarono dinanzi a una Capricciosa, una Napoli e una Margherita. L’idea balenata nella estrosa mente del nostro più illustre connazionale potè far breccia nella sconfinata creatività dei due uomini nordamericani. Alimentare un razzo spaziale con i supplì di riso, unico carburante che avrebbe permesso il volo agognato dagli scienziati delle agenzie spaziali di tutto il mondo. Quello che avrebbe condotto il primo essere umano su Marte. Tuttavia Stefano si imbattè immediatamente nei primi, evidenti ostacoli. Innanzitutto spiegare cosa fosse un supplì di riso ai due interlocutori a stelle e strisce. Come noto, prima della conquista del Pianeta Rosso, il supplì era pietanza poco conosciuta già oltre Viterbo, pertanto illustrarne le caratteristiche a chi era solito definire “Pizza Pepperoni” quella con il salame piccante, la Diavola per intendersi, appariva impresa assai ardua. Nonostante le apparenti difficoltà, Stefano, grazie anche alle tecniche di scrittura espressiva acquisite frequentando un corso serale in una nebbiosa cittadina emiliana, riuscì a descrivere gli straordinari vantaggi resi dal riso, dalla mozzarella e dal pan grattato quando amalgamati tra loro e utilizzati in qualità di propellente solido. Steve ed Elon, esterrefatti, non poterono esimersi dal sostenere le tesi scientifiche del nostro prode beniamino. Oggi siamo qui a ricordarne la breve esistenza. Marte fu raggiunto nel 2022. Nel 2023 una missione esplorativa ai margini della Via Lattea si concluse in tragedia. Avvenne quando l’astronauta spagnolo Sancho Panza scambió le scorte di supplì necessarie al rientro sulla Terra con la dispensa di bordo. I supplì terminarono e lo shuttle restò senza carburante. Per Stefano e il resto dell’equipaggio non ci fu nulla da fare. A tutti noi piace immaginare che un cavo lungo settecentoventisette milioni di anni luce possa ancora ricondurlo sul nostro pianeta così come una mozzarella filante così lega le due estremità di un supplì di riso spezzato a metà.
Stefano Bernardini
SUCCULENTO CAPPELLETTO
La partenza fu sicuramente sbagliata. Se tua mamma sta addentando un succulento cappelletto seduta a tavola con amici dovresti almeno avere la compiacenza di lasciarle godere la serata, ma fare quello che gli altri non si aspettano quando meno se lo aspettano era il destino della sua vita, e così venne alla luce a mezzanotte e trentatrè di un freddo Capodanno. Il primo vagito di tutta la provincia, con tanto di foto sul giornale locale. “E’ bella e rubiconda e le è stato dato il nome di Martina”. Passò il resto della vita a chiedersi se era davvero lei in quella foto. Nel qual caso il flash della macchina fotografica doveva averle procurato una reazione opposta e contraria che l’aveva portata a fuggire a gambe levate da tutto ciò che poteva metterla al centro dell’attenzione.
“Vieni a giocare”
“No, voglio leggere”
“Sei noiosa”
“E tu insulsa”
Battibecchi di questo tipo possono essere all’ordine del giorno se tu hai un amore sviscerato per i libri e tua sorella invece passa il tempo davanti allo specchio a provare i vestiti della mamma. L’amore per i libri Martina lo aveva scoperto molto presto. Nelle calde e afose giornate estive il posto migliore per leggere era tra le cantine. I lunghi e stretti corridoi che si intersecavano tra loro come un labirinto assicuravano penombra e silenzio. La gettata di cemento grezzo al posto del pavimento emanava poi una piacevole frescura tanto da rendere confortevole starsene per terra a gambe incrociate con il libro sulle ginocchia.
Che ci fosse un mondo al di là di quelle cantine Martina lo capì un giorno di primavera quando fu accompagnata controvoglia a casa delle nonna per un noioso pomeriggio in famiglia. Veniva da Parigi. Appena la vide Martina ne restò rapita. Non parlava una parola d’italiano ma a quel viso avresti perdonato qualunque cosa. Zia Fernanda aveva splendidi capelli biondi, un nasino all’insù, un girocollo di perle e un grazioso vestito primaverile con tinte azzurre che le arrivava fin quasi alle caviglie. Quando camminava, danzava. Martina non ebbe dubbi, avrebbe studiato francese e sarebbe andata a vivere a Parigi.
Ma si sa, nella vita capita che ti distrai e allora succede che per tenere compagnia ad una amica finisci in un’aula universitaria a seguire una lezione di tedesco con un professore che è maledettamente troppo carino per trovare la forza di alzarsi, uscire e tornare a sedersi nell’aula accanto, e i sogni parigini furono così sostituiti dai più concreti sogni berlinesi. A quel punto della sua vita Martina era abbastanza grande da poter soddisfare il suo desiderio di immergersi con tutta se stessa nella cultura tedesca sul suolo teutonico. L’esperienza sensoriale fu totale quando i capelli biondi della zia Fernanda furono sostituiti dai biondi capelli di Kris, un vichingo pallido con gli occhi cerulei di quasi due metri. Martina però doveva essere una forte sostenitrice del detto “moglie e buoi dei paesi tuoi” perchè in mezzo a tutto questo andirivieni tra Italia e Germania alla fine fu stregata dagli occhi castani di un taciturno codigorese. Quando ci ripensava non poteva fare a meno di considerare quanto fosse stata bizzarra questa vita che le aveva negato la torre Eiffel, regalato un passaggio attraverso la porta di Brandeburgo per poi approdare nelle valli della bassa ferrarese con un inaspettato ritorno alle origini. Non riuscì mai a capire in quale punto della sua vita si fosse distratta di nuovo. Forse si era iscritta al corso di scrittura di Simona Bianchini per scoprirlo, o forse stava solo cercando di trovare una scusa per cambiare ancora direzione e iniziare una nuova avventura.
Martina Matteucci