Racconto breve di Simona Bianchini
Al termine della notte ogni pensiero proibito per fortuna svanisce, è come se non fosse mai realmente esistito, si dissolve con le prime luci dell’alba o è Alba stessa a sbarazzarsene. Ogni gesto, ogni movimento che Alba produce sembra nutrire una sorta di fissazione che la spinge a incarnare la donna perfetta, matriosca della bambina perfetta che voleva suo padre.
Ricorda, figlia mia, che mai un Cannarizza Beltà si è macchiato e si macchierà di un crimine, o di un misfatto o di qualsivoglia comportamento riprovevole ai danni di qualcuno e nessun pettegolezzo sulla nostra famiglia dovrà mai essere generato. Massima integrità, sempre.
Queste erano le testuali parole che l’onorevole Gianfrancesco Cannarizza Beltà ripeteva, tutte le mattine, alla figlia prima di andare al lavoro. Alba ricorda il giorno esatto in cui questa sorta di mandato ebbe inizio, era il ventiquattro giugno del 1940, il giorno dopo in cui le fece visita il menarca. Quella mattina Alba ebbe la certezza che le disgrazie non vengono mai da sole.
Man mano che cresceva, Alba si convinse di essere una donna forte e ribelle, le sue stesse scelte rivendicavano e testimoniavano questa sua convinzione. Con orgoglio, rammenta spesso a se stessa, il rifiuto, nell’anno della sua prima Comunione, a frequentare le lezioni di cucito, le sue mani non ricamarono più né lenzuola, né asciugamani, né nessun altro tessuto. Al termine della quinta elementare si oppose con tutte le sue forze alla decisione di andare in collegio, simulò una finta fuga da casa che le fece ottenere il consenso dal padre di iscriversi in una scuola media della sua città. Così fece anche per il liceo, quella volta ricattò sua madre dicendole che, se non avesse interceduto per lei, avrebbe svelato, a suo padre, il contenuto delle lettere d’amore che aveva trovato sotto la biancheria della bisnonna. Poi, quando arrivò il momento di scegliere l’università, dovette digiunare per più di una settimana per ottenere il beneplacito dell’onorevole padre all’iscrizione a medicina, scelta che interrompeva, con immenso dolore di tutti, la tradizione che vedeva i primogeniti della famiglia Cannarizza Beltà indossare la toga per difendere i diritti di tutti, dei meno abbienti in particolare. La vita di Alba, a vederla adesso dai suoi sessantacinque anni, sembra un’estenuante lotta per disattendere le rigide aspettative familiari, ma con risultati più che altro fittizi, in quanto mai un padre e una figlia sono stati così vicini. Gianfrancesco Cannarizza Beltà difendeva i deboli con la legge, Alba li curava gratuitamente, lui aveva dedicato la vita a mantenere salda e unita la famiglia proteggendola da qualsiasi tentativo di intrusione dall’esterno e lei ha accettato ogni tipo compromesso con suo marito, amante compresa, purchè, almeno all’apparenza, venisse garantita l’unità familiare.
Ora, però, Alba ha cominciato a soffrire di una brutta insonnia, complici il troppo tempo libero che la pensione le sta regalando e la vedovanza che le ha tolto un marito da controllare, arginare, rimettere in carreggiata, fatto sta che i pensieri si affacciano, si intrufolano, non le danno scampo. Soprattutto di notte. Alba ritarda ogni sera il momento di andare a dormire, legge qualche pagina in più, si fa una camomilla, recita il rosario e spera che, nella notte, i pensieri vadano a cercare qualcun altro, anche se lei conosce la ragione per cui il rimuginare bussa proprio alla sua di porta. Il tempo guarisce le ferite, placa il dolore, ma non ha nessun effetto lenitivo sui rimpianti e sui sensi di colpa. Alba lo sa bene. Innumerevoli volte le è capitato di dover ascoltare i suoi pazienti confidarle l’angustia di non riuscire più a convivere con i rimorsi, il supporto che lei dava non era certo una buona parola, le veniva più facile prescrivere pillole, che spacciava per digestivi per il mal di stomaco, quando in realtà erano dei calmanti. Chiudeva sempre le imbarazzanti confidenze con un vecchio proverbio che la sottraeva dal dover trovare parole di consolazione La testa duole quando lo stomaco non la vuole. Quando Alba parlava di testa intendeva i troppi pensieri, quindi convinceva i pazienti che con una sistematina allo stomaco tutto avrebbe cominciato a filare per il verso giusto. Ogni volta che faceva la ricetta di un calmante per un paziente era come se lo prescrivesse anche a se stessa, sapeva che era questione di tempo e poi, dall’altra parte della scrivania, ci sarebbe satat lei. Quel momento è arrivato, ma Alba non ha intenzione di rivolgersi a un collega né per confidarsi, né tanto meno per farsi prescrivere dei tranquillanti, continua a ripetersi che se ha avuto il coraggio di fare quella scelta ora deve avere la lucidità e la forza per sostenerne il dolore che le procura.
Tutto accadde nel 1948, l’estate successiva al primo anno di università. Alba partecipò, di nascosto, a una delle manifestazioni che fecero seguito all’attentato di Togliatti, ne aveva sentito parlare dalla sua amica Anita che militava nel partito comunista e, per non farsi sfuggire l’ennesima occasione di infastidire suo padre, si aggregò. Fu l’unica manifestazione a cui Alba partecipò in tutta la sua vita, o almeno fino ai suoi sessantacinque anni. Spinta dalla folla cadde per terra e un ragazzo del gruppo si fermò per aiutarla a rialzarsi. Alba si sentì immediatamente attratta da quegli occhi neri come l’acqua di un pozzo e per un mese accettò di incontrarlo spesso. In quegli appuntamenti parlarono pochissimo, il tempo lo trascorrevano ad amarsi e Alba insieme al piacere scoprì di essere incinta.
Se ne accorse a ottobre inoltrato e a storia finita da un pezzo, perché Alba, con l’inizio dell’anno accademico, non aveva tempo da perdere con gli amori e i piaceri terreni e, attenendosi strettamente ai suoi programmi, l’ultimo giorno di settembre si congedò dal ragazzo. Gli disse che lui non era abbastanza per lei, cosa che non pensava assolutamente, ma che sapeva avrebbe funzionato per tenerlo lontano. Alba riuscì a nascondere la gravidanza con l’utilizzo di varie strategie, tra cui la finzione di aver un enorme appetito. Questo le riuscì fino a dicembre. Poi a Natale, illudendosi che nel giorno in cui ricorreva l’anniversario della nascita di Gesù, anche i suoi genitori fossero più comprensivi diede loro l’annuncio. A santo Stefano era già tutto organizzato perché Alba si ritirasse in un istituto religioso dove sarebbe rimasta fino al momento del parto. Il figlio sarebbe stato affidato a una famiglia che già lo desiderava, così l’aveva rassicurata il padre quando lei aveva avuto i primi tentennamenti.
Adesso, tutte le notti, non appena si corica le appare l’immagine di quella bambina, la fissa con un’espressione mista tra disprezzo e dolore. Le stesse emozioni che Alba prova verso se stessa e che, probabilmente, le hanno impedito di accogliere dentro di se un’altra vita quando un marito ce l’aveva, quando l’arrivo di un figlio sarebbe stato considerato un dono e non una disgrazia.
In una di queste sere in cui Alba di andare a letto proprio non aveva intenzione, seduta sulla poltrona, in uno strano dormiveglia, le sono tornate alla memoria le parole della suora, che l’aveva assistita fino al parto, parole che le aveva detto dopo l’allontanamento della bambina Cara Alba, cara ragazza mia, ricordati che solo alla morte non c’è rimedio. Lo diceva sempre la mia cara nonna di Firenze, lei abitava in piazza San Lorenzo. Ricordatelo.
Le parole di suor Rosa non erano altro che un indizio, come aveva fatto a non pensarci prima. Alba, quelle parole, le aveva rimosse. Suor Rosa non aveva nessuna nonna che abitava a Firenze, ne era sicura. Durante i mesi in cui Alba aveva vissuto nell’istituto suor Rosa le aveva raccontato la storia della sua famiglia, tutti i suoi parenti abitavano in Calabria. Solo alla morte non c’è rimedio, Alba lo sa, ora può cercare di riparare, può riprendere ago e filo e ricucire il tessuto del suo cuore. La strada per farlo ha inizio a Firenze, a piazza San Lorenzo.
Clara, la sua bambina, l’avrebbe chiamata Clara.